Disabilità: il nuovo Welfare della carità a partecipazione azzerata (I Parte)

Oggi pubblico un ottimo articolo di Eleonora Campus, che troverete l’originale qui. L’ho suddiviso in due parti per agevolare la lettura. Attendete pure la seconda parte che sarà pubblicata domani.

Autore: Eleonora Campus

La storia ci ha insegnato che la garanzia per ogni persona di tutti i diritti sociali, economici e civili ha comportato un lungo cammino – mai finito – fatto di battaglie e sacrifici umani.
Eppure se si fanno cento passi in avanti, puntualmente nei periodi di crisi economica assistiamo al tentativo di farne fare mille indietro – anche culturalmente – da parte di uno Stato che – attraverso la cosiddetta sussidiarietà – ha ceduto e svenduto questi diritti a soggetti di mercato che li trasformano in oggetti di guadagno inneggiando al cosiddetto “Welfare solidale”.
La parola Welfare di solito è tradotta come “Stato Sociale”. Ma è un termine che – a mio parere – richiama alla mente lo stigma di uno Stato sprecone e assistenzialista. In realtà il significato della parola Welfare è letteralmente “Stato del ben-essere” di ogni cittadino legato indissolubilmente alla garanzia dei diritti sociali, economici e civili e, perciò, ai diritti umani.
In generale il Welfare è, soprattutto per la parte che riguarda le persone disabili, un’occasione ghiotta di profitto. Il Welfare solidale (o comunitario) sembrerebbe la rinnegazione dei diritti umani, un attentato a cittadini membri di uno Stato di diritto che dovrebbe tutelare ognuno, uno spregiudicato inno alla carità e alla concessione, e un veicolo per alimentare gli interessi di mercato da parte di gruppi forti. Ma di cosa si tratta?.
La mia attenzione è andata su un articolo che considero preoccupante (si veda sul Messaggero Veneto clicca qui) tanta è la sua approssimazione, il miscuglio di argomenti, la mancanza di attinenza a qualsiasi cultura di diritto. Nell’articolo apparso su un noto quotidiano, il Presidente di una altrettanto nota fondazione di un gruppo bancario, richiama alla mente il mito di un’ infanzia trascorsa in una comunità contadina dove per puro spirito altruistico tutti – si legge – aiutavano tutti e, dato che lo Stato non ce la fa più ad assistere alcuni, occorrerebbe un cambio culturale che porti a incentivare questa abitudine alla solidarietà verso chi “non è più funzionale”.
Così – come testualmente riporta il quotidiano – bisognerebbe «riallacciare i rapporti fra le diverse associazioni di volontariato e le associazioni no profit» e, quindi. con i gruppi. Un circuito in cui si inserirebbe anche il gruppo della fondazione in questione. Prosegue infatti: «Puntiamo anche a scuotere gli individui in modo da rafforzare le reti che abbiamo sul territorio integrando le risorse pubbliche, sempre più calanti, con quelle individuali». Qui l’aspetto caritatevole è lampante. E conclude «È un sistema a cavallo tra privato e collettivo basato su solidarietà di tipo territoriale che ha come principali protagonisti associazioni di volontariato, enti religiosi, cooperative sociali, associazioni di categoria, fondazioni di origine bancaria, ma anche comunitarie, di impresa e di famiglia, che operano e svolgono la propria attività in collaborazione con gli enti pubblici e privati, per concorrere a rendere migliore il clima sociale». A questo punto sorgono diversi interrogativi che esporrò di seguito.

La persona “non funzionale”, i recinti e gli abusi.

Partendo dalla disabilità dato che nell’articolo si fa riferimento a chi “non è più funzionale” ci si chiede:
• quale cultura può mai essere quella che parla di persone “non più funzionali” (vecchia dicitura OMS) e non fa riferimento alla successiva Convenzione ONU delle persone disabili che non parla di una perdita di funzione, ma della valorizzazione delle capacità di ognuno?
• Quale cultura può mai essere quella che recinta i diritti dentro una comunità e la sua benevolenza e non considera per nulla i diritti umani (quindi anche quelli legati al Welfare), che invece la giustizia pretende siano rispettati per tutte le persone, indipendentemente da dove vivono o da quanto le conosciamo, semplicemente perché sono esseri umani?
• L’altruismo non è forse una dote personale, che andrebbe coltivata, ma che non è obbligatorio avere e non c’entra nulla con l’essere giusti o con il diritto?
• Chi è solidale non è forse più propenso ad aiutare persone che sente più vicine per qualsivoglia sentimento di affetto? E gli altri…? E ragionando anche sullo Stato Nazionale ci si domanda poi:
• lo Stato di diritto non è forse stato uno dei passi in avanti per liberare la persona proprio da quelle società contadine dove la  parola diritto era completamente sconosciuta o ignorata?
• I diritti umani non hanno forse progredito proprio sulla scia di abusi sugli esseri umani a cui la storia ci ha fatto assistere?.

La seconda parte è qui.