di Salvatore Sfrecola
Si sente dire, mi tengo sul generico per carità di Patria nella speranza non sia vero, che il Governo avrebbe chiesto al Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa una rosa di cinque nomi tra i quali scegliere il prossimo Presidente del Consiglio di Stato, carica vacante da quando, alcuni mesi fa, Giorgio Giovannini si è dimesso per protesta nei confronti della decisione governativa di “sfoltire” il ruolo di quei giudici mandando in pensione anticipata un bel numero di essi, nell’ambito di uno sbandierato quanto ipocrita “ricambio generazionale” che ha determinato l’esodo dei più anziani senza contestualmente reclutare giovani.
Se vera, e temo lo sia, si tratterebbe di una decisione senza precedenti, perché i governi di destra e di sinistra hanno fin qui chiesto un nome secco, sulla base di una prassi interpretativa secondo la quale la norma che prevede il procedimento di nomina del Presidente del Consiglio di Stato, con decreto del Presidente della Repubblica previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, “sentito” il Consiglio di Presidenza, prende le mosse da quella che è stata intesa come una “designazione” dello stesso Organo di autogoverno a richiesta di Palazzo Chigi. Ciò nel rispetto dell’indipendenza della magistratura amministrativa, costituzionalmente garantita (artt. 100, comma 3, e 108, comma 2, con riferimento alle funzioni consultive e giurisdizionali), indipendenza che si riferisce sia alla composizione dell’organo che alle modalità di provvista dei suoi componenti. In sostanza la deliberazione del Consiglio dei ministri ha fin qui preso atto della scelta dello stesso Consiglio di Stato, che ha sempre indicato il più anziano nel ruolo dei Presidenti di sezione. Ricordo, in proposito, che un giorno Franco Frattini, proprio in ragione di questa prassi, mi disse: “so esattamente giorno, mese ed anno nel quale sarò Presidente del Consiglio di Stato”.
Per valutare il senso dell’iniziativa governativa è sufficiente soffermarsi sul fatto che il Consiglio di Stato è il giudice degli atti della Presidenza del consiglio e dei ministeri e che quando svolge funzioni consultive lo fa a “tutela della giustizia nell’amministrazione” (art. 100, comma 1, Cost.) per giungere alla conclusione che Palazzo Chigi non può scegliere ad libitum il vertice della Magistratura Amministrativa. Montesquieu si rivolterebbe nella tomba solo all’ipotesi di una siffatta lesione di uno dei principi cardine dello Stato costituzionale di diritto, che attuerebbe la prevaricazione dell’Esecutivo sul Giudiziario.
È evidente, infatti, che nel sistema delle garanzie di indipendenza alle quali si è fatto cenno, la richiesta da parte del Governo della indicazione di una “rosa” di candidati tra i quali scegliere il nuovo Presidente non è ammissibile. Poi, perché cinque e non tre o sette? Scrivo senza aver consultato il ruolo del Consiglio di Stato per cui non manifesto il dubbio che proprio tra i cinque ci sia il “prediletto” che evidentemente il premier assume potrebbe assicurargli “buone relazioni” con l’organo, nella logica di quella spregiudicata occupazione del potere efficacemente sperimentata in enti e agenzie governative. Un tentativo comunque destinato ad infrangersi su una realtà incontrovertibile. L’obiettivo del premier muove, infatti, da un calcolo in ogni caso miope (e questo la dice lunga sui suoi consulenti giuridici!). Le magistrature si esprimono in forma collegiale, laddove il Presidente è soltanto un primus inter pares. Sempre che gli altri componenti del collegio abbiano la spina dorsale dritta. E a Palazzo Spada hanno dimostrato di averla. Come attesta una serie di pronunce con le quali, ancora di recente, quei giudici, dando dimostrazione di essere gelosi custodi della legge e della propria indipendenza, hanno assai dispiaciuto il Governo, arrivato a vette di improntitudine straordinarie, addirittura ritenendo irrilevanti, prima che fossero resi, alcuni pareri che si temeva fossero negativi, di cui i giornali hanno dato notizia. Tanto per dire in tema di procedure di appalto per l’assegnazione dei giochi. Ma anche alcune pronunce in sede giurisdizionale non sono state gradite.
È evidente da tempo che il Presidente del Consiglio nutre fastidio per le regole della democrazia, come dimostra il fatto che ha inteso mortificare ripetutamente il Parlamento costretto a votare, sulla base di mozioni di fiducia su maxiemendamenti, le leggi che lo interessano, comprese quelle di conversione di alcuni decreti legge che hanno manomesso importanti principi giuridici, come quelli che riconoscono i diritti acquisiti dei pensionati, nonostante la pronuncia della Corte costituzionale la quale ha ricordato, per bocca del suo Presidente, Alessandro Criscuolo, una regola elementare: la Consulta giudica della costituzionalità delle leggi rimanendo la questione dell’eventuale insufficienza della copertura finanziaria delle spese un problema che va risolto in altra sede, in Parlamento. Consulta invisa al premier che, infatti, non riesce a far eleggere i giudici costituzionali mancanti da tempo perché, a differenza di quanto è avvenuto fin qui sulla base della indicazione delle varie forze politiche, vuole dalla sua parte tutti i giudici da eleggere, nel timore che siano giudicate incostituzionali alcune delle riforme alle quali il Ministro Boschi ha imprudentemente affidato la sua notorietà nella storia del diritto italiano. E non a caso si sente fare i nomi di personaggi che, a leggere i giornali, potrebbero, se eletti alla Consulta, garantire un passaggio indenne da rischi all’italicum e ad altre leggi sospette di aver violato principi costituzionali. Che poi è sempre il classico calcolo “senza l’oste”, perché in un collegio di professionisti ricchi di dottrina ed esperienza non è possibile seguire più di tanto le aspettative dei vari sponsor. Crozza imitando il Governatore della Campania, De Luca, li chiamerebbe “personaggetti”, quanti avrebbero conquistato il cuore del Presidente del Consiglio con una serie di favori dei quali anche si vanno gloriando nelle anticamere del potere, pensando di portare all’incasso i servigi resi.
La richiesta di una rosa tra cui scegliere il prossimo Presidente del Consiglio di Stato, è, dunque, un segnale che deve preoccupare tutti coloro che credono nell’indipendenza della magistratura (nei prossimi mesi sarà la Corte dei conti a rinnovare il suo Presidente) e nel rispetto delle regole costituzionali sulla separazione dei poteri e sul principio di imparzialità, cioè di legalità, che permea l’assetto della Repubblica.
fonte: http://italianioggi.com/le-mani-del-governo-sul-consiglio-di-stato/