Autore: Eleonora Campus
Con le sentenze 154 – 156 e 157 del 2015, il TAR della Regione Piemonte ha confermato che le “prestazioni socio-sanitarie” domiciliari (cd. assistenza tutelare) delle “persone non autosufficienti” (cioè con disabilità e non autosufficienza), sono qualificate come Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) ossia, le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (istituito dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833) – è obbligato a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione cioè, il cd. ticket (cfr. Ministero della Salute).
Si tratta, nel caso in esame, delle «prestazioni di aiuto infermieristico e assistenza tutelare alla persona» fornite da familiari e da badanti. Le prestazioni comprese nei LEA dunque, sono un diritto pieno ed immediatamente esigibile da parte degli interessati. La Corte del Piemonte nel caso specifico, ha accolto i ricorsi del Comune di Torino (sent. 154 del 2015), di numerosi altri Comuni ed Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali piemontesi (sent. 157 del 2015), ed anche di alcune associazioni di categoria (sent. 156 del 2015) che, con le stesse motivazioni, hanno agito contro le delibere n. 25 e 26/2013, n 5/2014 della Giunta Regionale. In particolare il Tribunale ha annullato questi provvedimenti nella parte ove risultavano lesivi del “diritto esigibile” alle prestazioni socio-sanitarie domiciliari – in questo caso svolte da persone non professioniste come familiari e badanti perché i provvedimenti non intaccavano quelle svolte da personale tecnico dell’assistenza o infermieri- rivolte a persone anziane non autosufficienti nei vari momenti della vita quotidiana a casa propria.
L’illegittima posizione della Regione Piemonte – secondo il TAR – è dovuta al fatto che le delibere di Giunta avrebbero “spostato” anche la quota sanitaria delle prestazioni domiciliari, svolte da familiari e badanti e corrisposte attraverso il cd. “assegno di cura”, al settore assistenziale riclassificandole interamente (al 100%) come interventi di tipo socio-assistenziali “extra-LEA” (cioè fuori dei LEA). Di conseguenza, il settore sociale (Utenti/Comuni) se ne è completamente fatto carico.
Invece, tutte le prestazioni di assistenza tutelare sono definite come LEA dal d.P.C.M del 29 novembre 2001 e, perciò, riguardano un servizio che deve essere “gestito e coordinato direttamente dal Distretto socio-sanitario delle Aziende Sanitarie Locali in collaborazione con i Comuni” come disposto dal d.P.C.M. del 14 Febbraio 2001 che è l’Atto di Indirizzo di classificazione delle prestazioni.
Secondo la Corte questi Livelli, in quanto essenziali, non sono limitabili e l’ erogazione deve essere garantita dal Sevizio Sanitario, a “livelli uniformi”, su tutto il territorio nazionale come stabilito dal d.lgs, 30 dicembre 1992, n. 502 e dal successivo d,lgs. n. 229 del 1999 (cd. decreto Bindi che da una spinta alla regionalizzazione) – entrambi di Riforma del SSN – che sono anche la normativa di riferimento dell’Atto di Indirizzo del 14.02.2001 e del d.P.C.M. del 29 novembre 2001. Secondo il TAR attraverso una interpretazione del d.P.C.M del 29 novembre 2001 orientata prima di tutto alla Costituzione e alla salute come “diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” (tutelato dalla Repubblica ai sensi dell’articolo 32 Costituzione rispetto anche al dovere di solidarietà sociale ai sensi dell’art. 2 Cost.), le prestazioni socio-sanitarie sono diritti che non possono essere negati, neanche in caso di risorse di bilancio scarse o a fronte del risanamento del debito sanitario di alcune Regioni in disavanzo (come il Piemonte) cioè, in una situazione in cui i costi hanno superato le entrate. E’ il Servizio Sanitario Nazionale che ha il compito di rendere effettiva la tutela richiesta dalla Costituzione, attraverso i LEA definiti dal Piano Sanitario Nazionale nel rispetto dei “principi della dignità della persona umana, del suo bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze (…)” (come disposto dall’ articolo 1, comma 1 e 2 del d.lgs. n.502 del 1992).
Riguardo al caso specifico, secondo la Corte la questione centrale è una corretta interpretazione della nozione di “assistenza tutelare alla persona”, stabilita dal d.P.C.M del 29 novembre 2001 (Allegato 1.C, par.n. 7, lett. e). A nulla infatti vale la motivazione della Regione Piemonte che senza alcuna base normativa ed arbitrariamente non ritiene “tutelare” solo quella fornita da operatori senza specifica qualifica professionale. Il Tribunale ha affermato che questo tipo di prestazioni socio-sanitarie fornite da personale non professionista rientrano comunque nei Livelli Essenziali di Assistenza (dunque nella immediata esigibilità) – per la parte importante e non modificabile sia del diritto alla salute che all’assistenza socio-sanitaria, imposta dalla Costituzione all’art. 32 ed ai sensi dell’art. 117, comma 2. lett. m, Cost. (principio già affermato dalla stessa Corte Piemontese con sentenza n. 199 del 2014) – come indicati con d.P.C.M. 29 novembre 2001. Tale decreto con la nozione di “assistenza tutelare” attua la previsione generale dell’art. 1, comma 6, del d.lgs. n. 502 del 1992 che dispone che l’assistenza sanitaria deve essere e erogata dal Servizio sanitario nazionale e si svolge negli ambiti dei LEA specificatamente dell’assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, dell’assistenza distrettuale e dell’assistenza ospedaliera.
Le sentenze sono importanti perché, basandosi su una precisa normativa Costituzionale e Statale in materia, nonché su precedenti sentenze del TAR stesso, danno corpo alla salvaguardia dell’esigibilità del diritto alle prestazioni socio-sanitarie contrapponendole alle «esigenze della finanza pubblica» che non possono portare a schiacciare la parte fondamentale e non modificabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana e del diritto primario ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione. Più dettagliatamente infatti, secondo la Corte, per le “prestazioni sociali a rilevanza sanitaria” ( come anche l’assistenza tutelare) il riferimento è l’articolo 3-septies, comma 2, lettera b, del d.lgs n.502 del 1992 ai sensi del quale esse comprendono “tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute”. Da notare che anche l’emarginazione condiziona lo stato di salute. Dunque, questo tipo di prestazioni proprio per la loro natura sociale ma di importanza sanitaria (la cura della persona, il soddisfacimento dei suoi bisogni primari come alzarsi, lavarsi, vestirsi, andare in bagno, la preparazione e l’aiuto durante i pasti, l’assistenza nei movimenti, la somministrazione dei farmaci se necessari), sono particolarmente adatte sia ai bisogni di cura della persona non autosufficiente (art. 32 Cost.) sia alla salvaguardia della sua dignità in un momento particolarmente difficile della sua vita (cfr. sent. TAR 156 del 2015).
Secondo il giudizio del TAR se l’esecuzione del programma di solidarietà sancito in Costituzione incontra ostacoli di tipo economico-finanziario per l’obiettiva carenza di risorse da stanziare e/o in caso di accordi di rientro da deficit, il rimedio più immediato non è la violazione dei LEA negandoli, ma è una diversa allocazione delle risorse disponibili (cfr. anche sent. 36/2013 della Costituzione). E questo vale pure per «le prestazioni di aiuto infermieristico ed assistenza tutelare alla persona» che sono e devono continuare ad essere garantite ed erogate dal SSN o a titolo gratuito o con partecipazione alla spesa (art. 1, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992). Pertanto, il TAR ha stabilito che resta il mantenimento del 50% del loro costo a carico del Servizio sanitario. Spetta alle singole amministrazioni (nel caso in questione alla Regione) predisporre le risorse in modo tale da equilibrare i vari interessi protetti dalla Costituzione che chiedono di essere realizzati (cfr. TAR Piemonte, sentenza n.199 del 2014 e sentenza 156 del 2015). Inoltre, il Piemonte ha violato la sua stessa legge Regionale n. 10 del 2010 (servizi domiciliari per le persone non autosufficienti), che include tra le prestazioni di lungo-assistenza croniche, anche le prestazioni non professionali di “assistenza familiare” (cosi come pure alcune delibere di Giunta in vigore). A seguito delle sentenze, la Regione non esprimeva l’intenzione di ricorrere al Consiglio di Stato contro i giudizi del TAR, che annullando le delibere di Giunta Regionale, ha riportato alla titolarità della sanità la metà del pagamento delle prestazioni di aiuto infermieristico e di assistenza tutelare ai non autosufficienti. Tuttavia, successivamente, da alcune fonti è emerso che la Regione non avrebbe mantenuto questa intenzione e pare che ricorrerà contro le sentenze perpetrando – in maniera assolutamente intollerabile – la sua posizione di abuso rispetto al diritto alle cure socio-sanitarie dei cittadini non autosufficienti (cfr. in Cure domiciliari, la Regione Piemonte frena). Una grave presa di posizione che antepone motivi di carattere economico – giustificati dall’esigenza di risparmiare – alla vita delle persone, Motivi ancor più scellerati se si pensa che sono proprio le cure domiciliari che permettono di spendere meno rispetto ad altre soluzioni. Dunque la Regione sceglie la via dell’eugenetica laddove non riesce a deportareforzatamente le persone non autosufficienti in strutture volte ad alimentare il sistema?…..Questo è un grave attacco alla vita, alla libertà e al diritto di scelta di alcune categorie di cittadini.
Un abuso evitato e una normativa discriminatoria che resta
Tuttavia, a ben vedere il Tribunale evita l’ “ulteriore abuso” dello spostamento totale delle prestazioni di assistenza tutelare al settore sociale perché la metà di questi costi già non rientrano nella copertura del SSN e si continua – sulla base di una precisa storia normativa – ad assoggettarli (al solo scopo di risparmiare) alla non equa contribuzione attraverso l’attribuzione di una percentuale di spesa all’utente o al comune.
A partire dalla metà degli anni ottanta infatti, la legge finanziaria del 1984 (Legge 730/83, art. 30) crea lo strumento che permette questo abuso e cioè, la specifica area di integrazione socio-sanitaria che comporta un nuovo regime di finanziamento ove riversare alcune categorie “selezionate” di cittadini. Questa area vede l’integrazione di risorse sanitarie e sociali perciò, attribuibili ad un ambito integrato e non ad un ambito di competenze solamente sanitarie o ad un ambito di competenze solamente sociali. E’ decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 agosto 1985 (cd. decreto Craxi che è un atto di indirizzo e coordinamento a cui demandava la legge finanziaria del 1984) che ha il compito di definire le “attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali” cioè, quelle per le quali era prevista una quota a carico del servizio sanitario nazionale e non più l’interezza. Perciò , le Regioni – a cui il decreto è rivolto – vengono autorizzate a legittimare una “compartecipazione sanitaria” alla spesa allo scopo di spostare alcune fasce di utenti (individuate dalle Regioni stesse) dal settore sanitario a quello socio-sanitario rispetto ad alcune prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione fisica e sociale, che fino a quel momento erano state un diritto soggettivo pienamente esigibile perché a carico delle Unità Sanitarie Locali – ossia le attuali Aziende Sanitarie Locali – con risorse totalmente provenienti dal fondo sanitario nazionale.
Il trasferimento al nuovo settore integrato ha riguardato ai sensi del decreto Craxi del 1985: l’area materno infantile, le persone con handicap, gli anziani non autosufficienti, i dementi senili e i malati di Alzheimer, i pazienti psichiatrici. Molti anni dopo, con il d.P.C.M. del 14.02.2001 si aggiungono : le persone non autosufficienti con patologie cronico degenerative; i soggetti alcolisti e tossicodipendenti; gli affetti da patologie psichiatriche; gli affetti da patologie da Hiv. Il Servizio Sanitario mantiene a totale carico solamente i pazienti terminali rispetto alle «prestazioni e trattamenti palliativi in regime ambulatoriale domiciliare, semiresidenziale, residenziale». Con il d.PC.M. del 14.02.2001, si impone ai Comuni – titolari delle funzioni socio-assistenziali delle aree territoriali di provenienza degli utenti – di finanziare (senza risorse aggiuntive) una parte delle attività rispetto a queste tipologie di utenti. Al decreto del 14/02/2001 fa seguito, nel novembre dello stesso anno, il “decreto Sirchia” del 29 novembre 2001 che definisce i “Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria”. Anche questo d.P.C.M. conferma il trasferimento degli utenti all’area di integrazione socio-sanitaria e inserisce alcune prestazioni rigorosamente sanitarie tra quelle “assistenziali” già assoggettate dalla precedente normativa alla contribuzione da parte del cittadino e/o del Comune.
In pericolare, il decreto del 29 novembre 2001 stabilisce che le spese per “prestazioni di assistenza tutelare” (di interesse del caso del TAR Piemonte) al 50% sono considerate “quota sanitaria” e rientrano nei LEA. Dunque, come ribadito anche dalla Corte Piemontese, tali costi devono essere coperti dalla ASL per l’intera quota in questione e sono a carico e garantiti dal Servizio Sanitario nazionale (Allegato 1.C, par.n. 7, lett. E). Il restante 50% delle spese, invece, sono considerate “quota sociale” e non rientrano nei LEA. Perciò sono a carico dell’utente al quale viene richiesto di contribuire, in genere, per tutta la quota detta e se non ha redditi sufficienti deve intervenire il Comune di residenza sulla base dell’ISEE dell’interessato e con risorse di uno specifico fondo sociale: il Fondo Non Autosufficienze (FNA). In sostanza, ci si trova di fronte ad una compartecipazione dei costi tra il settore sanitario nazionale (ASL) che per la metà garantisce le prestazioni a tutti gli aventi diritto, ed il settore sociale a livello locale (utente/Comuni) che per l’altra metà impatta sull’interessato e – ove interviene il Comune – si basa sulle risorse disponibili e sulla discrezionalità dell’Ente nello stabilire l’accesso agli interventi.
Con l’articolo 54 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Legge finanziaria 2003) si fa un passo avanti perché sono confermati i livelli essenziali di assistenza stabiliti dall’articolo 1, comma 6, del d,lgs. n. 502 del 1992, ed i due d.P.C.M del 2001 acquistano forza di legge. Grazie alla finanziaria, le prestazioni socio-sanitarie – per la parte dei LEA – diventano “diritti soggettivi immediatamente esigibili” di cui godere nei confronti degli Enti Gestori e della ASL di riferimento (come disposto dall’articolo 4, comma 2, del d.P.C.M. 14. 02.2001). Ai sensi del comma 2 dell’art.54 della legge finanziaria 2003, sulla scorta del secondo e terzo d.lgs. di riforma del SSN (d.lgs. 502 del 1992 e d.lgs. 229 del 1999), il Servizio Sanitario deve comunque garantire “attraverso le risorse finanziarie pubbliche individuate dal comma 3 e conformemente ai principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n.833” prima legge di istituzione e di riforma del SSN: “i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse”.
L’esigibilità del diritto, importante e ribadita dal TAR, è stata però conquistata (o per meglio dire riconquistata) “relativamente” grazie alla finanziaria del 2003. Infatti, resta il fatto che l’integrazione socio-sanitaria comporta una divisione in tre quote degli interventi e mantiene le modalità dello spostamento di parte di queste attività dall’area sanitaria a quella sociale. Perciò una parte delle prestazioni si confermano di natura sanitaria quale diritto esigibile e a carico del Fondo Sanitario Nazionale. Ma una parte continuano ad essere a carico dell’utente e/o con un’integrazione è a carico del Comune, senza che la normativa statale (compresa la legge 328 del 2000 di Riforma dell’assistenza) definisca alcun diritto soggettivo a beneficiarne. Anche se il principio importante che negare le “prestazioni sociali è discriminazione” è stato disposto dalla sentenza di Ascoli (non senza qualche criticità cfr. in “assistenza e discriminazione: un passo avanti ma non abbassate la guardia”),questa sembra una tutela circoscritta e di altro ambito (quello puramente sociale) che non deve riguardare le categorie di utenti che sono state, dal 1985 in poi, man mano e ingiustamente comprese nell’area di integrazione socio-sanitaria e usufruiscono di tali prestazioni. Un’area costantemente in bilico tra il legale e l’illegale.
L’assistenza sociale dunque è un’altra sfera perché è riconosciuta dall’art. 38 della Costituzione alle persone inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere. Ma inabilità e mancanza di capacità lavorativa non sono sinonimo di disabilità se pur grave o particolarmente grave e se pur rientrante nella cd. non autosufficienza. E i costi delle prestazioni di aiuto negli atti di vita quotidiana sono accollati e non sopportabili per tutti per cui, vanno “oltre” i normali mezzi necessari per vivere. Queste prestazioni di assistenza non sono collegabili solo all’indigenza totale. Il riferimento Costituzionale deve essere l’articolo 32 della Costituzione che tutela il diritto alla salute di ognuno ma totalmente, senza frammentarlo (o addirittura disintegrarlo) nell’area sociale definita dall’art. 38 della Costituzione.
Paradossalmente, anche la legge di Riforma dell’assistenza 328 del 2000 all’art. 2 comma 3 e 4 da la precedenza di accesso alle prestazioni a tutti i soggetti che si trovano in condizione di povertà, o con limitato reddito, nonché ai soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali. E sulla povertà e sulle soglie di quello che dovrebbe essere un “limitato reddito” si gioca – attraverso l’iniquo strumento dell’ISEE – l’ennesima esclusione dei soggetti deboli da prestazioni ed erogazioni volte ad assicurare i diritti fondamentali. Ma se questo è vero, per capire i processi di esclusione e di abuso avvenuti con la creazione dell’area socio-sanitaria, occorre chiedersi cosa intendiamo per non autosufficienza e chi intendiamo siano i soggetti non autosufficienti.
Cosa è la non autosufficienza e chi sono le persone non autosufficienti
La non autosufficienza non è una condizione standard: possono rientrarci persone con esigenze diverse che hanno bisogno di cure per tutto l’arco della vita o che si devono inserire nella vita quotidiana come chiunque altro. Può dunque riguardare bambini, giovani, adulti, anziani malati cronici e/o non autosufficienti, persone con disabilità fisica, psichica e sensoriale, malati psichiatrici, di Alzheimer, con HIV, oncologici e patologie croniche varie. Sono tutti soggetti che necessitano di assistenza infermieristica, di prestazioni terapeutiche, fisioterapiche e riabilitative a casa propria o presso strutture diurne e residenziali ma, hanno bisogno anche di supporto negli atti di vita quotidiana compreso l’aspetto umano e relazionale verso il mondo esterno. Tutte queste persone hanno il diritto ad usufruire delle prestazioni di assistenza domiciliare – nella forma da loro scelta ai sensi della Convenzione ONU sulle persone con disabilità – per far fronte ad esigenze fondamentali di vita quotidiana e non soccombere in assenza di supporto. Va da se che per affrontare tali esigenze nessuno deve essere messo in condizione di sopportarne il peso economico (se non classificato come indigente) e di sprofondare a sua volta in povertà estrema.
Gli esclusi parziali e gli esclusi integrali; l’incertezza del diritto, l’arbitrarietà delle valutazioni di accesso alle prestazioni, la competenza sociale come strumento di abuso
In tutte le prestazioni socio-sanitarie elencate nel d.P.C.M. del 29 novembre 2001 – come afferma specificatamente il d.P.C.M. stesso – la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili tra loro. Perciò, le prestazioni sociali richiamate nei Lea devono essere considerate unitamente sia con quelle sanitarie che con quelle socio-sanitarie. La competenza degli interventi stabiliti dal decreto 29 novembre 2001 è dunque sanitaria comprese le prestazioni socio-sanitarie che con l’approvazione dell’articolo 54 della legge 289/2002 rientrano, conformemente alla legge, tra i Livelli essenziali (come da allegato 3, lettera d del decreto 2001) che il Servizio sanitario è obbligato a garantire.
Eppure si continua a mantenere il sistema della compartecipazione tra il Servizio Sanitario Nazionale e l’area sociale su base locale secondo una logica di risparmio economico a danno degli Utenti e/o Comuni. Non solo: le prestazioni assistenziali di natura diretta, indiretta e di vita indipendente – rivolte a persone con gravi disabilità e/o non autosufficienza – che dovrebbero rientrare nella nozione di “assistenza tutelare” (e dunque nelle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale) ne sono invece alcune volte escluse arbitrariamente in contraddizione con la normativa nazionale che vale per tutte le persone con disabilità e/o non autosufficienti, nonché per i malati e per tutte la fasce di età. Queste sono attività che se non supportate, addirittura, lascerebbero la persona non solo emarginata ma anche in uno stato di completo “abbandono” con un degrado fisico e psichico della persona in violazione dei più elementari diritti. Pertanto, riconducono al benessere fisico e psichico della persona. Si fa fatica in generale a definire attività di questo tipo “sociali” già per la pesante parte a carico degli Utenti e/o Comuni rispetto all’area integrata socio-sanitaria che è quella ove – almeno in parte – si può utilizzare il concetto dei LEA. Figuriamoci se come nel caso dell’assistenza diretta, indiretta e della vita indipendente queste sono – a volte – discrezionalmente considerate e scaricate interamente nel settore sociale e dunque rimesse alle risorse disponibili – derivanti dal Fondo Sociale Nazionale non autosufficienze istituito dalla legge finanziaria 2007 (legge 296 del 2006, articolo 1, commi 1264 e 1265) – dell’Ente Gestore delle Funzioni Assistenziali (Comune). Oltretutto, il Fondo Sanitario Nazionale non autosufficienze è aggiuntivo e complementare alle risorse già destinate dal Fondo sanitario Nazionale agli interventi a favore delle persone non autosufficienti da parte delle Regioni e delle autonomie locali. Il FNA dunque, non sostituisce quello sanitario nazionale ma lo integra, è più ridotto e destinato esclusivamente ai Comuni per coprire i costi di “rilevanza sociale” dell’assistenza socio-sanitaria ma pure le prestazioni accollate indebitamente in maniera totale ai Comuni! (cfr. art. 2, comma 2 del decreto interministeriale di riparto del 12 ottobre 2007). Si tratta poi di un Fondo non strutturale e per il quale ogni anno non c’è certezza di riconferma.
Inoltre, al fine di quantificare la prevalenza sanitaria o sociale di questi interventi, i soggetti interessati alle prestazioni di assistenza sono sottoposti alla verifica della loro percentuale di “gravità” da parte di apposite Commissioni. Perciò, la compartecipazione del SSN è garantita ai soggetti con disabilità “grave” o di “particolare gravità” riconosciuta ai sensi della Legge n. 104/92 art. 3 co e valutati come “gravi” da parte di queste unità multidisciplinari ai sensi dell’art. 4 della legge 104/92 e tenendo conto di quanto previsto dall’articolo 19 della legge 104/92. La Commissione multidisciplinare (sociale e sanitaria) a sua discrezione può considerare l’assistenza diretta, indiretta e di vita indipendente con carico suddiviso tra ASL e Comune – come tutte le prestazioni socio-sanitarie di assistenza tutelare – così come invece, completamente a carico del Comune valutandole in regime socio assistenziale …….E nella realtà troppo spesso purtroppo, si arriva a non riconoscere in alcun modo entro i LEA l’assistenza diretta, indiretta e di vita indipendente perché viste esclusivamente – e illegittimamente – come un problema sociale. Solo per le prestazioni degli utenti classificati “gravissimi” c’è la certezza dell’erogazione diretta della Regione in regime socio sanitario. Le Regioni applicano le forme di assistenza secondo norme e regolamentazioni proprie.
Evidentemente il concetto di “gravissimi” lo si fonda sulla categoria “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria” (sulla scia di quanto disposto dai due decreti di Riforma del SSN:d.lgs. 502 del 1992 e d.lgs. del 1999) di fase “intensiva” di competenza soprattutto sanitaria perché comportano un impegno riabilitativo specialistico di tipo diagnostico e terapeutico, di elevata complessità, di durata breve e definita. Le modalità operative sono residenziali, semiresidenziali, ambulatoriali e domiciliari. In particolare, il decreto Bindi del 1999 nell’ambito “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria” individua anche quelle in fase “estensiva” che comportano una presa in carico specifica per un periodo medio-lungo prestabilito perciò, anche se l’ impegno terapeutico è minore, sono anch’esse di competenza maggiormente sanitaria. Mentre nel tipo di “lungo assistenza” prevale – discutibilmente – la “competenza sociale” perché l’intervento è visto come volto a favorire la vita sociale attraverso il mantenimento della migliore autonomia funzionale possibile e il rallentamento del suo degenerare. Comunque negli obiettivi del decreto, tutti questi tipi di interventi sono rivolti a soggetti “di particolare gravità” al fine di garantirgli il diritto ad essere curati attraverso risposte celeri e certezza del finanziamento (per la parte coperta dal SSN che deve rientrare nei LEA) della prestazione.
Dai decreti di Riforma del SSN ai d.P.C.M. di attuazione: l’evidenza normativa dell’illegittimità dell’esclusione totale attraverso la deportazione totale all’area socio-assistenziale e l’esclusione parziale che resta
Oltre alla nuova categoria delle prestazioni socio-sanitarie di elevata intensità, in generale il decreto Bindi ripuntualizza la categoria delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale” (nate con il decreto Craxi del 1985) – ossia le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite – di competenza prevalentemente sanitaria e a carico della ASL. Altresì definisce anche la categoria delle “prestazioni sociali a rilievo sanitario” cioè “le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute” la cui competenza è soprattutto sociale e dunque richiedono un maggiore impegno dei Comuni (Enti gestori delle funzioni socio assistenziali) con compartecipazione da parte dell’utente e minori costi per le Aziende Sanitarie (SSN) .
E’ da notare che in nessuna delle categorizzazioni del decreto si evidenzia un’ ipotesi a completo carico dell’area sociale omettendo del tutto il SSN: al massimo, si arriva ad ipotizzare una prevalenza di carico di un’area rispetto all’altra. Oltretutto, le attività specifiche delle “aree materno infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da H.I.V. e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico degenerative” rientrano nelle “prestazioni – socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria” di livello “intensivo” o “estensivo” e dunque, il carico deve gravare maggiormente sul Servizio Sanitario Nazionale”. Inoltre, l’art. 1 del d.lgs. n. 229 del 1999 (che sostituisce Il comma 7 dell.’art.1 del d.lgs. n. 502 del 1992) fa rientrare nel concetto di assistenza sanitaria i servizi e le prestazioni sanitarie che hanno, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, certezze scientifiche di un significativo beneficio rispetto alla salute, a livello individuale o collettivo, anche quando le risorse impiegate per garantire i livelli essenziali e uniformi di assistenza risultano enormi.
A seguire invece, in attuazione di quanto previsto dai decreti legislativi di Riforma 502/92 e 229/99, i d.P.C.M. 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie) e d.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei LEA) – all’elencazione delle loro Tabelle allegate – hanno scaricato addosso agli Utenti e/o Comuni il peso eccessivo di tutta una serie di prestazioni che (come disposto nelle categorie del decreto Bindi) dovevano rientrare maggiormente nei LEA e derivare dal Fondo Sanitario Nazionale. La parte sociale richiamata nei LEA dal decreto del 29 novembre 2001 – come già detto e anche guardando estensivamente a seguito della finanziaria 2003 – deve essere considerata non scissa ma unitamente alle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie. In questo senso, è interessante notare anche che il d.P.C.M 14.02.2001 (riferimento normativo fondamentale del d.P.C.M 29/11/2001 come specificato all’allegato 3, lt. d e riletto alla luce della finanziaria 2003) assegna e mette a carico delle ASL l’insieme delle “prestazioni sanitarie a rilevanza sociale”, dunque, si può dedurre, anche quelle non caratterizzate da elevata integrazione. Inoltre, questi interventi sono personalizzati, di durata medio/lunga e sono erogati in vari regimi tra i quali risulta anche quello domiciliare (oltre a quello ambulatoriale, o nelle strutture residenziali e semiresidenziali).
Quell’esigibilità “completa” dei diritti da riconquistare che non ammette “carenza di motivazione”
Da quanto detto finora, appare evidente che, dal 1985 in poi, sono state “selezionate” alcune categorie di persone sottraendogli il pieno godimento di diritti umani fondamentali attraverso la “deportazione” in un’area “appositamente” creata che di fatto ha solo creato nel tempo esclusioni parziali o totali dalla protezione Costituzionalmente garantita ai sensi dell’art. 32 (diritto alla salute) e dalle garanzie rivolte a tutti i cittadini dalla legge 833 del 1978 (prima Riforma del SSN e sua Istituzione).
La politica e le esigenze di risparmio economico hanno prevalso sui diritti innati e sacrosanti di alcuni. La divisione delle competenze tra Stato, Regioni e Comuni ha favorito solo confusione, mano libera negli abusi, e lo scaricare le esigenze vitali delle persone più fragili dagli uni agli altri, affidandole il più delle volte a fondi incerti, esigui e discrezionali. Di fatto – inconsapevolmente per gli interessati – tutto questo è avvenuto pian piano, quasi silenziosamente. Una vera e propria strategia di soppressione dei più deboli e di espulsione dai diritti attraverso una “selezione” che non possiamo permettere e che con la memoria riporta a tempi bui dove alcune persone erano considerate indegne di vivere.
Non dobbiamo dimenticare che prima del 1985, le categorie interessate da quella che è stata una deportazione in un limbo infame (e non un trasferimento ad un’utile area delle prestazioni) avevano la piena esigibilità dei diritti successivamente frammentati e negati parzialmente o totalmente. Dunque, le prestazioni socio-sanitarie devono essere diritti da garantire completamente perché collegati ad esigenze vitali elementari di alcune fasce di persone deboli e discriminate perché selezionate appositamente al solo fine di contenere la spesa. E come si è visto finora (secondo anche quanto ribadito dai TAR e dalla Corte Costituzionale) le politiche di risparmio non possono comprimere i diritti umani.
Occorre riprendersi i diritti sottratti a volte con una parvenza legittima ma discutibile, altre volte invece in modo sfacciatamente illegittimo. A questo proposito potrebbe raggiungere lo scopo un’azione collettiva – così come avvenuto già con i ricorsi contro il nuovo ISEE – tenendo conto di quanto ricostruito finora in questo articolo per acquisire coscienza degli abusi che ci sono stati e tutt’ora ci sono, nonché della deriva che si potrebbe raggiungere se si continuerà ad accettare passivi tutto questo. Si tratta di un argomento che riguarda tutti perché come visto, la non autosufficienza e le situazioni di gravità o malattia riguarda una gran quantità e varietà di persone. Di fatto tutte le categorie selezionate sono chiamate in causa – nessuno se ne può tirar fuori – perché tutte sono state deportate nell’area di abuso escludendole dalle tutele vuoi parzialmente, vuoi totalmente.
Prima di scrivere questo articolo – frutto della lettura delle sentenze Piemontesi ed anche di un lavoro di ricerca nonché di riflessione – ero un po’ titubante se procedere o meno. Mi sembrava un lavoro superfluo e che non avrei potuto dare molto di più di quello che già si “sapeva”. Poi ho iniziato ad ascoltare alcune testimonianze dirette dalle quali sono emerse le situazioni reali di abuso (storie di singoli) e una certa confusione nel capire se la propria esigenza rientrava in questa o quella legge oppure in questo o quell’altro tipo di assistenza. Questa mancanza di consapevolezza mi sembrava assurda e ingiusta perché le persone si trovano catapultate e schiacciate nelle pressanti esigenze di vita quotidiana e negli iter burocratici. Le leggi se le ritrovano addosso con tutto il loro impatto negativo e nessuno ha interesse a spiegare – o è meglio dire che forse più di qualcuno ha interesse che gli interessati continuino a ignorare – come sono arrivati a quel tipo di situazione e se davvero nulla si può fare per contrastare certi tipi di abusi. Partendo dalle sentenze Piemontesi e procedendo sistematicamente con una ricostruzione normativa e storica, penso che si può comprendere meglio e agire in giudizio collettivamente per far si che le cose cambino.
Augurandomi semplicemente di essere stata – un minimo – utile affinché molti possano prendere il coraggio e la consapevolezza di lottare per riconquistare i diritti sottratti.
Eleonora Campus
Aggiornato in data 23 aprile 2015